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Home Articoli Il piroscafo armato Isonzo: la nave a tutti i costi

Il piroscafo armato Isonzo: la nave a tutti i costi

10/06/2013

Autore testo: Pierpaolo
Montali
Autore foto: Mario Spagnoletti


Domenica 2 giugno 2013, il maestrale non cessa
di soffiare sulla Sardegna.
Mario ed io siamo arrivati già dal 30 maggio, giorno del mio compleanno, che ho
sottratto alla celebrazione in famiglia con un certo qual senso di colpa.


Dobbiamo eseguire almeno una delle immersioni
che ci eravamo preposti di fare grazie all’ottima organizzazione sul posto
dell’amica e collega sub Beatrice Anghileri, titolare della Ichnusa Diving &
Excursions a Pula, attività di servizio e supporto agli escursionisti subacquei
e non, a pochissimi chilometri distanza dal sito dell’immersione. Lei infatti ci
ha dato la possibilità di conoscere ed incontrare un subacqueo coraggioso come
Arrigo Marendino, course director e titolare del centro di formazione alle
immersioni sito all’interno del villaggio turistico Calaserena in località
Geremeas nel comune di Maracalagonis.
Si è deciso di partire senza osservare troppo la regola del mare piano: son
giorni infatti che soffia il vento, ma la fortuna vuole che Arrigo abbia il
diving più vicino al relitto, posato su di un fondale di 57 metri davanti alla
località Torre del Finocchio, nel territorio antistante e corrispondente ai
comuni di Sinnai e Maracalagonis appunto, e pertanto ci si è decisi ad onorare
un impegno reciproco, stanti le difficoltà ambientali.


L’Isonzo
era un piroscafo armato costruito dai cantieri Tirreno di Riva Trigoso
nel 1937; esso era lungo 87,25 metri e largo 11,00. Era spinto da un
motrice a triplice espansione alimentata da due caldaie a nafta in grado
di esprimere 1700 cavalli, che consentivano di raggiungere una velocità
massima di 12 nodi.
Esso aveva due cannoni da 102,35 millimetri, atti alla difesa navale, e
da due mitragliatrici da 13,2 millimetri per la difesa aerea. Era una
naviglio della Classe Volturno, requisito all’utilizzo commerciale e
dotato anche in seguito di due rotaie, poste a poppa via, per la semina
delle mine galleggianti; funzione però questa che non ebbe mai durante
il conflitto. Venne invece immatricolato al Registro Navale come nave
per scorta ai convogli e faceva parte del dislocamento d’istanza alla
base navale di Taranto.
Alle ore 16:00 del 10 aprile del 1943 la nave lasciò il porto di
Cagliari diretta al Comando marina di La Maddalena per portare un carico
di preziosa acqua dolce che avrebbe dovuto servire all’alimentazione dei
motori a vapore del naviglio ivi esistente, oltre che per le esigenze
della piccola isola, priva di proprie riserve idriche potabili. Con
l’Isonzo, che stazzava 3363 tonnellate, navigavano in quel frangente
anche la motonave Loredan, da 1357 tonnellate, ed il piroscafo Entella,
da 2391 tonnellate.
La loro scorta era costituita dal MAS 507, in ascolto idrofonico, da un
idrovolante in ricognizione aerea e da un dragamine RD 29; il MAS 510
rientrato da La Maddalena ed appena passato tra Capo Boi e Torre del
Finocchio non recava notizie importati, o di imminente pericolo.
Navigando sotto costa, per esser più defilati rispetto ai temuti
attacchi esterni nemici, le navi giunsero, intorno alle ore 18:20,
all’altezza di Torre del Finocchio, antica costruzione pisana per
l’avvistamento di Saraceni, che oggi è in località rinominata Torre
delle Stelle.
In quel luogo il sommergibile HMS P211 Safari, al comando del tenente di
vascello Ben Bryant, che tanto divenne sinistramente famoso, durante lo
svolgersi del conflitto mondiale di quell’area, a causa dei suoi
memorabili affondamenti, era pronto in agguato.
La Sardegna era ritenuta luogo strategico dalle forze dell’Asse, poiché
la si stimava utilizzabile come testa di ponte, a motivo della sua
centralità nel Mediterraneo occidentale, da parte delle intervenute
armate angloamericane che avessero voluto procedere ad uno sbarco
organizzato ed assistito sul territorio nazionale italiano.
Il Safari era quel battello sommergibile che tutti cercavano e che
nessuno trovava mai e che taluni hanno avanzato in ipotesi, a guerra
conclusa e sulla base dei racconti di alcuni anziani pastori sardi, che
potesse aver trovato nascondiglio all’interno della cavità naturale
della Grotta del Bue Marino di Cala Gonone (di nostra prossima
pubblicazione e che ha fatto anche parte della presente nostra
spedizione subacquea). In quelle acque verdeggianti infatti esso ebbe
modo di silurare anche il cargo armato KT, che oggi riposa su di un
fondale sabbioso di circa 37 metri e poco distante di…
L’HMS P211 inglese era un sommergibile costiero della classe S della
Mediterranean Fleet di base ad Algeri. Dotato di due motori, uno diesel
e l’altro elettrico, esso poteva navigare in tutta silenziosità alla
velocità di 14 nodi in superficie e di 8 in immersione ed aveva a bordo
48 uomini, di cui 5 ufficiali.
Giunto sulla vicina linea di tiro senza essere scorto da nessuno, il
Safari fece partire quattro siluri ad intervalli di 475 secondi l’uno
dall’altro.
Due centrarono in pieno l’Isonzo, colpendolo uno sotto il ponte di
comando a mezza via e l’altro sull’elica. Un altro siluro invece impattò
a tre quarti scafo verso poppa via sul Loredan, mentre il piroscafo
Entella, nel tentativo di sfuggire all’attacco, andava ad incagliarsi
sul fondale prospiciente Torre del Finocchio.
La nave carica d’acqua dolce non ebbe scampo ed in pochi minuti affondò
con tutto il suo carico.
Oggi il relitto si presenta coricato sul fondale sabbioso, a quasi
sessanta metri di profondità, sulla dritta via, come se stese riposando
dopo le fatiche del conflitto.


La nostra immersione ricorda di oggi, per il
rischio che contiene connesso alle condimeteo generali, quel maledetto giorno di
settant’anni fa, quasi esatti, che vide finire in mare una parte delle speranze
di rivincita di una Marina, che avrebbe dovuto, almeno in teoria, rappresentare
il fiore all’occhiello del sistema di difesa italiano.
Scendendo sulla cima del pedagno, fissato verso la poppa via ed in prossimità
dello squarcio aperto dal siluro che colpì il castello del comando, si comincia
ad intravedere la sagoma del grosso relitto già dai 35 metri circa e stanti le
pessime condizioni dell’acqua rispetto al normale.
Arrivati sul relitto ci si intende e sistema velocemente, non avendolo potuto
fare con tranquillità in superficie per le difficili condizioni meteo marine: le
coppie son divise tra subacquei ricreativi, che faranno un limitatissimo tempo
di fondo, e tecnici, che resteranno di più per poter documentare l’immersione:
la profondità non è eccezionale, ma la prudenza e la pianificazione devono
sempre essere al primo posto nel pensiero degli operatori subacquei in acqua.
Si inizia così la esplorazione del relitto con il notare i locali vuoti del
castello di comando e l’affusto della bussola, o del telegrafo di macchina
ancora incredibilmente fissato alla pavimentazione lignea.


L’enorme sagoma del relitto si staglia sul
fondale turchino del mare rischiarato almeno un po’ dal soprastante sole; a
seguire si nuota verso la poppa della nave, sconquassata dalla tremenda bordata
del siluro proprio sull’elica. Ci si inoltra, ad un rapido cenno di conoscenza
del luogo di Arrigo, sul fondo del relitto e si guarda il cannone da 102
proiettato verso la superficie come se volesse difendere ancora la propria nave.
Le lamiere appaiono contorte e con alcuni evidenti e pericolosi crolli
strutturali, oltre che coperte da incrostanti marini, quasi come silenti
testimoni di una tragedia tra il rossore delle immancabili castagnole guizzanti.
Procediamo quindi vero la mezza via della nave, facendo a zig zag tra i
curvilinei bighi di carico e sul comando in mezzo ad una nuvola di saraghi
pizzuti che ci guardano stupiti, quali fossero consapevoli dell’inaspettata
visita di sommozzatori fuori stagione.
Arrivati verso la prua non possiamo non esser colpiti dall’albero di carico, ora
inclinatosi, ma con in cima ancora quella coffa di avvistamento che fu del tutto
inutile nella tragica sorte finale del naviglio.


Più sotto il grosso argano da manovra delle due
ancore, con le catene tuttora in tensione; quella di sinistra è infatti sempre
alloggiata nel suo occhio di cubìa, mentre quella di dritta giace sotto il peso
della nave sul fondale sabbioso.
Nell’angusto passaggio, che Arrigo ed i suoi hanno individuato negli anni sul
ponte e dopo aver osservato la maestosa proiezione d’immagine del pezzo
d’artiglieria da 102,35 mm di prora, riusciamo ad intrufolarci io e Mario,
scorgendo tra le polveri del mare, alcuni colpi ancora ben impilati dei due
cannoni che la nave aveva in dotazione.
I segni evidenti dei crolli strutturali dovuti alle esplosioni dei siluri ed al
trascorrere del tempo sott’acqua offrono per certi versi un’impressione
desolante, quasi che le urla e la concitazione di quei momenti tragici
ritornassero alle nostre orecchie in questi tutto sommato pochi attimi in
immersione.
Il relitto andrebbe visitato, per le sue rilevanti dimensioni e per i suoi
numerosi anditi, in più immersioni, ancorchè queste effettuate in miscela tale
indicazione varrebbe doppio, ove effettuate in semplice aria.
Al rientro alla base, nel breve tragitto di mare da percorrere, sballottati sul
gommone con tutte le nostre pesanti ed ingombranti attrezzature video-foto-sub,
ripensiamo alla necessità di proporre questa immersione alla valutazione di
subacquei esperti e ben motivati, che abbiano anche un interesse storico ed il
rispetto dovuto verso chi quel 10 aprile del ’43, tra quelle lamiere contorte,
perse la propria vita.
Un saluto finale ad Arrigo ed al suo staff ed un ringraziamento all’ottima
organizzazione logistica di Beatrice ci congedano da questa esperienza sarda,
resa faticosa dalle condizioni generali del mare, ma entusiasmante dalle
immersioni a tutti i costi cercate e poi concesseci, in grotta, come sugli
splendidi e tristi relitti sul fondo del mare.

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