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grande blu

Il grande blu – I parte

26/03/2019

Pubblichiamo in 3 puntate un racconto di Giuseppe Arabito, Parte I

Guardai avanti, mi spinsi nel vuoto e volai nel Grande Blu.

Non c’era nulla, se non il blu.

Nulla sopra, nulla sotto, nulla attorno. Solo il Grande Blu mi circondava.

 

Dal porticciolo partimmo solo in due. Massimo cominciò a remare verso est, tenendosi a qualche decina di metri dalla costa rocciosa che precipitava a mare. Alcuni chilometri più avanti c’erano località molto più rinomate della Costiera: Positano, Amalfi, Maiori…

Non stavamo a bordo della mia barchetta arancione. Mi sarebbe piaciuto molto, ma non avrei potuto portarla lì sul tetto della mia A112.

Eravamo giunti a Nerano in tarda mattinata. Avevamo noleggiato una piccola scialuppa a remi e caricato l’attrezzatura necessaria. Maschere e pinne, naturalmente; quindi due mute con relative cinture di pesi, torce potenti e infine sagola e ancorotto.

L’escursione era in progetto da mesi. Quel sabato di metà settembre avrebbero dovuto venire con noi anche mio cognato  e un altro amico, ma all’ultimo momento per loro erano sorti dei problemi. Tutte le fidanzate, senza eccezione, avevano declinato la gita. Sapevano benissimo che l’obiettivo non era “andare al mare”, ma visitare una grotta scoperta pochi anni prima, la Grotta dello Zaffiro, in cui potevano entrare solo subacquei esperti.

Nessuna di loro era tale. Avrebbero dovuto attendere sulla barca o al porto, annoiandosi e magari preoccupandosi. Le ragazze si erano tutte graziosamente defilate e noi maschi non avevamo insistito più di tanto.

Dopo più di un chilometro Massimo si guardò attorno.

“Ci siamo, riconosco l’isolotto di fronte. Si chiama lo scoglio dell’Isca. Il punto è questo!”

L’ignoto era vicino.

Tirò i remi in barca ed io gettai in mare l’ancorotto.

La sagola scese velocissima fra le mie dita a occhiello. Spirali di corda larghe un braccio sfilarono in rapida successione e vennero inghiottite giù, nella profondità.

FRRRRRRRRRR…

Era lunga cinquanta metri e sfilava, sfilava, sfilava… sempre più giù.

TÙM!

Cinquanta metri di cavetto inchiodati in verticale e l’àncora ancóra non toccava!

Restai impressionato.

“Riavvolgiamo e avviciniamoci al costone” disse Massimo.

Tirai su con pazienza, riavvolgendo laboriosamente tutta la corda attorno al braccio, a formare tanti cerchi di circa mezzo metro di diametro. Li impilai tutti quanti sul ripiano di prua, ben ordinati e afferrai l’ancora. Nel mentre, il mio amico aveva dato qualche colpo di remo e ci eravamo portati a solo una decina di metri dalla roccia a strapiombo, che adesso incombeva su di noi.

Più vicini di così non potevamo andare.

Provai a gettare ancóra l’àncora.

FRRRRRRRRRR…

I giri di corda si erano srotolati quasi tutti quando l’ancorotto toccò. Non potevo mollare troppa sagola, altrimenti la barca correva il rischio di sbattere sulla roccia. Così la tendemmo a un angolo di quasi novanta gradi, che non era l’ideale. Comunque col mare calmo teneva ferma la barca.

Avvertii solo adesso una vaga preoccupazione. Avrei avuto il coraggio di immergermi?

Mentre indossavamo le mute e i pesi Massimo mi lesse nel pensiero.

“Peppe, adesso scendiamo a dare un’occhiata all’ingresso. Non entriamo subito, è solo per guardarlo da fuori. Sei pronto?

“Sì, ma ricorda che dopo la mia disavventura di tre anni fa non mi sento di scendere a più di sette/otto metri!”

“Tranquillo, non andremo giù così tanto”.

Ci calammo in mare.

L’acqua mi parve fredda, ma subito la muta in neoprene cominciò a fare il suo dovere e ben presto il cuscinetto di liquido infiltratosi fra lei e la mia pelle divenne caldo e molto confortevole.

Ci dirigemmo verso la parete che sprofondava nel blu e scendemmo un po’ a guardare.

Sotto di noi, nella roccia, si stagliava un arco enorme.

Veniva su dal profondo fino a un massimo di cinque–sei metri di profondità, poi riscendeva nell’ignoto. L’arco delimitava una zona assolutamente nera.

Risalimmo in superficie.

“Ecco, quello è l’ingresso!” confermò il mio compagno.

Mi assalì uno spavento improvviso.

“E noi dobbiamo entrare là dentro?”

“Sì, ma non ti preoccupare. Vado avanti io, che ci sono già stato. Adesso ci prepariamo, poi scendiamo tutti e due con le torce accese. Io entrerò all’imbocco e andrò un po’ avanti. Poi mi girerò e ti farò segno lampeggiando, per farmi vedere. Tu vienimi sempre dietro. Farò così ogni quattro o cinque metri per segnalare che tutto va bene.

Le parole sicure del mio amico cancellarono l’ondata di paura irrazionale. Ma dovevo saperne di più.

“Per quanto dovremo procedere?”

“Ricordo che bisogna andare avanti per una quindicina di metri, fino alla prima camera. Lì c’è aria, e il grosso è fatto”.

“Sei sicuro?”

“Certo, sta’ tranquillo!”

Cominciammo a iperventilare e il battito del mio cuore rallentò.

“Scendiamo giù per cinque o sei metri – proseguì  – e ci teniamo sotto la volta del tunnel. Poi andiamo in avanti. Io mi giro ogni tanto per usando la torcia come faro”.

E proseguì coi suoi profondi respiri. Io lo imitai.

“Prendi assai fiato – continuò – perché il tragitto non è breve. Quando sei pronto, dimmelo”. Seguitò a tirare come un mantice.

Continuai anch’io, preoccupato. Sarei dovuto entrare là sotto al meglio delle mia capacità, e procedere al massimo fino a metà fiato. In caso di pericolo sarei potuto sempre tornare indietro.

Sapevo che la mia autonomia in apnea, con le pinne, era parecchie decine di metri. Ero abbastanza forte e atleticamente preparato ma non volevo lasciare nulla al caso.

Massimo terminò l’iperventilazione. “Sei pronto?” mi chiese.

“Sì!” gli fiatai.

Lui mi fece il segnale di pollice in su, e s’immerse.

Subito dopo lo seguii.

Procedemmo obliquamente in avanti e verso il basso.

L’arco nero mostruoso avanzò verso di noi.

grande blu

Giuseppe Arabito (Napoli, 1956) lavora come ricercatore Enea. Pratica apnea dall’età di 12 anni

(Continua)

 


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