Ci sono luoghi che non hanno bisogno di molte presentazioni, ma solo di essere respirati a pieni polmoni e goduti intensamente nella loro incredibile interezza. Le isole Medas, al largo di L’Estartit, nel tratto iniziale della Costa Brava, sono uno di questi: un piccolo arcipelago che, visto dalla riva, sembra solo un gruppo di rocce appuntite che spezzano l’orizzonte. Ma sotto la superficie del mare si nasconde un mondo indimenticabile, un gioiello prezioso del Mediterraneo, una delle sue riserve marine più affascinanti.
Chi arriva qui e indossa l’attrezzatura subacquea lo capisce subito: le Medas non sono solo un punto sulla mappa, ma un laboratorio vivente di biodiversità. Cernie che ti scrutano senza paura, barracuda che sfrecciano in banco, grotte e pareti dove la luce filtra come in una cattedrale sommersa. È uno di quei posti in cui il mare mi ricorda perché mi sono innamorato della subacquea.
Non vi scriverò una guida turistica ma un racconto di viaggio nel quale condividerò la mia esperienza tra curiosità, momenti magici e consigli pratici in grado di farvi vivere questa avventura senza cadere nei soliti cliché folcloristici. E, sono certo che anche voi vorrete entrare nel cuore di questo posto unico. Perché le isole si guardano da fuori, ma le Medas si capiscono solo tuffandosi dentro.

Il viaggio verso le Medas – 6 ottobre
Alle sette del mattino, Chiavari è ancora avvolta da un silenzio leggero, rotto solo dal rumore del motore della mia auto che si accende. La strada davanti a me è lunga, 800 chilometri esatti di autostrada e strade statali, di deviazioni, cartelli stradali da interpretare, barriere per i pedaggi, controlli di velocità da remoto e soste per fare rifornimento.
Ma l’idea di avere il mare come compagno di viaggio è più che sufficiente per trasformare la tensione e la stanchezza che si accumulerà in attesa febbrile.
La Liguria mi accompagna con i suoi saliscendi di gallerie e viadotti, segno di un’opera di ingegneria umana che, negli anni Sessanta e Settanta, è riuscita ad unire e plasmare territori aspri e difficilmente collegabili. Uno sguardo a sinistra, ed ecco l’acqua turchese del Mar Ligure brilla tra gli scogli, le spiagge e le località turistiche che ci si affacciano. Un altro sguardo e montagne e colline rigogliose creano ampie valli che sembrano scivolare lentamente verso il mare.
È un paesaggio che mi è familiare, ma che ogni volta mi stupisce e mi sembra diverso, come se sapesse che lo sto salutando per qualche giorno.
La frontiera arriva quasi senza accorgermene: Mentone, Nizza, Cannes, nomi che scorrono come pagine di un racconto del jet set degli anni ruggenti. È la Costa Azzurra che luccica elegante, con le città sembrano appositamente disegnate per abbracciare il Mediterraneo, con il mare, sempre lì, mi accompagna fedele, scintillando con una luce più chiara, quasi dorata.
Tenetevi una carta di credito sempre a portata di mano e controllate bene le segnaletiche delle barriere per il pedaggio, che qui si susseguono una dietro l’altra. Perché è un attimo sbagliare la corsia, finire in quella riservata solo al “Télépéage”, e ritrovarsi così a dialogare con una fastidiosa voce metallica che ti chiede la combinazione numerica della tua carta e ti ricorda di fare molta attenzione la prossima volta.
Poi la Francia meridionale si distende, vasta, luminosa, tra gli svincoli e i raccordi di Aix-en-Provence sin verso la Camargue che porta con sé nomi esotici e un vento diverso, profumato di sale e di erba marina mentre la strada torna a correre dritta.
Io sento che sto davvero viaggiando, percepisco l’adrenalina e uno strano spirito di avventura e libertà. Il mare, sempre fedele alla mia sinistra, è la mia bussola che non sbaglia mai. Ho superato abbondantemente la metà del viaggio ed è ora di una sosta e del rifornimento, nei pressi di Montpeiller.
Le stazioni di servizio, che in Francia si chiamano “aire de service”, sono dei veri e propri punti di ristoro con ampie aree dedicate al relax e alla sosta. Prestate però attenzione che vi riforniscano anche carburante e non solo la ricarica elettrica perché da queste parti si sono portati avanti con le direttive green europee.

Infine, i Pirenei si disegnano all’orizzontee scavallarli è come aprire la porta verso una strada ormai in discesa, che porta all’arrivo. Al di là c’è la Costa Brava, scura e selvaggia, che mi accoglie con un mare più profondo, con scogli e punte che sembrano sentinelle. L’Estartit appare dopo otto ore di guida, con la fatica addosso ma anche con la certezza che ogni curva, ogni chilometro, era parte di un rito di passaggio.
Perché un viaggio così non è solo uno spostamento: è un lento attraversare mari e paesi, lasciandosi cambiare dai paesaggi. E quando arrivi, non sei più lo stesso di quando sei partito.
L’Area Marina Protetta delle Isole Medas
L’arcipelago composto da questi piccoli scogli che ora si stagliano di fronte a me non è soltanto uno dei tanti gioielli naturalistici del Mediterraneo ma è anche un’area severamente protetta, nata con lo scopo di preservare uno degli ecosistemi marini più ricchi e vari del nostro mare.
Dal punto di vista istituzionale, le Medas rientrano nel “Parc Natural del Montgrí, les Illes Medes i el Baix Ter”, creato con una apposita legge del 2010, che unifica la protezione del massiccio del Montgrí, delle isole e del basso corso del fiume Ter ma questo tratto di mare era oggetto di tutela ambientale sin dal lontano 1983.
La parte emersa delle isole è classificata come riserva naturale integrale e l’accesso è strettamente regolamentato e generalmente vietato senza autorizzazione mentre l’area marina circostante è designata come riserva naturale parziale, in cui navigazione, immersioni e altre attività sono regolamentate per minimizzare l’impatto umano.
Il parco naturale ha un’estensione complessiva di circa 8.192,19 ettari, dei quali circa 2.036,99 ettari costituiscono la parte marina protetta che è quella con le regole specifiche più severe. Infatti, per tutelare la biodiversità e consentire un uso sostenibile, l’AMP delle Medas prevede regole molto precise come il divieto assoluto di pesca professionale e subacquea mentre alcune zone sono addirittura interdette al transito e alle immersioni subacquee, in modo da fungere da “cuore” protetto.
Le immersioni sono ammesse, sebbene in numero limitato e solo nei punti previsti dal regolamento del parco stesso e i diving center autorizzati seguono un planning vitalizio preciso che stabilisce per loro giorni e orari di accesso ai singoli siti di immersione. Una pianificazione che permette di sapere, sempre e con congruo anticipo, quando il centro immersioni che ho scelto andrà su quel determinato sito di immersione che sogno di fare.
Ora, il mio spirito eccessivamente critico e “mugugnoso” (tipica espressione genovese di scontento e di protesta prolungata) mi porta a fare un confronto con una realtà che ben conosco e che considero la mia casa subacquea, l’Area Marina Protetta di Portofino, che ha un’estensione di appena 346 ettari, una piccola zona, la Cala dell’Oro, considerata come riserva integrale e una molto più ampia, dove i pescatori locali possono svolgere la loro attività e dove i divieti più elementari, come il transito delle imbarcazioni da diporto, vengono totalmente disattesi. E quella è anche la zona dove il subacqueo può immergersi, mi piacerebbe dire in tranquillità, ma purtroppo non è così.

Quel particolare rapporto tra i vari diving center del luogo
L’Estartit è una di quelle località che non ha bisogno di effetti speciali per colpire, è una piccola cittadina catalana affacciata sul Mediterraneo, incastonata tra il massiccio del Montgrí alle sue spalle e le rocce brune delle Isole Medas proprio di fronte. Una cornice naturale che sembra disegnata apposta per far innamorare chi ama il mare vero, quello che profuma di sale, vento e libertà.
La spiaggia principale è lunga, dorata, ampia. Sabbia fine e mare che degrada dolcemente, perfetto per le famiglie e per gli anziani. Camminare lungo la battigia significa avere sempre davanti a sé le isole: piccole, ma potenti nella loro presenza, quasi dei guardiani che vegliano sulla baia.
Il lungomare di L’Estartit è semplice ma curato: palme, panchine, bici che scorrono lente e un susseguirsi di locali che vivono del ritmo del mare. Al tramonto, il cielo si tinge di arancio e rosa, e la luce rimbalza sulle facciate delle case e sul profilo delle barche ancorate. È quel tipo di atmosfera in cui il tempo sembra fermarsi, mentre i tavolini si riempiono di voci, tapas e bicchieri di sangria e di “cervezas” ghiacciate.
Poi c’è la parte nord, quella che guarda il porto: il cuore operativo e, allo stesso tempo, il punto d’incontro di chi il mare non lo guarda soltanto ma lo vive. Qui si trova la Marina, ordinata e silenziosa al mattino presto, piena di vita nel resto della giornata. Le banchine ospitano pescherecci, yacht, gommoni, e le inconfondibili barche dei diving center che partono e rientrano come in una danza perfettamente sincronizzata. È qui che si concentrano i bar più autentici e i ristoranti migliori.
Qui, sul molo destinato agli imbarchi dei diving center di L’Estartit, è tutto un via vai di bombole, barconi e gente in muta che sembra uscita da un film di Jacques Cousteau, ma con più neoprene colorato e meno poesia. I centri immersioni principali hanno i loro uffici quasi tutti qui, uno accanto all’altro, ma mai in conflitto. Le loro insegne colorate si alternano ai chioschi di noleggio barche e ai negozi di attrezzatura subacquea, creando una tavolozza vivace che profuma di salsedine e neoprene.
Alle otto del mattino, puntuale e preciso come un loro briefing, il pontile si accende. Le guide controllano attrezzature e bombole, i sub arrivano sorridenti in piccoli gruppetti e gli istruttori… be’, loro fanno quello che sanno fare meglio: parlano, ridono, e fingono di avere tutto sotto controllo. È un caos ordinato, una specie di orchestra che suona senza direttore ma non sbaglia una nota.
Io sono qui, in mezzo a loro, guardo le barche attraccare, caricare, partire e tornare con una precisione che in Italia ci sogniamo. Tutti collaborano, nessuno si pesta i piedi, e persino i carrelli elevatori si muovono come ballerini di tango, pieni di cassoni di bombole pronte a essere ricaricate.
Dietro quella routine apparentemente casuale c’è un piccolo miracolo: un consorzio che riunisce ben sei diving center del posto. Dentro una struttura moderna ed elegante, piazzata sulla loro banchina, alcuni operai del consorzio gestiscono quattro compressori che non si fermano mai; i carrelli elevatori consegnano cassoni con le bombole necessarie per ogni barca che parte e ne ricevono uno con quelle vuote e pronte per la nuova ricarica.
E come si riesce a gestire una cosa del genere? Semplice, ognuno dei centri contribuisce in base al numero di bombole che ricarica all’anno, partecipando alle spese di gestione, manutenzione e imprevisti come in una vera cooperativa del mare. E sapete la cosa incredibile? Funziona, funziona davvero! Nessun casino, nessun “chi doveva fare cosa”, nessun litigio su chi ha caricato più o meno. Tutto gira liscio, come un orologio svizzero immerso nel ritmo blando catalano.
E non è solo logistica, qui si ragiona insieme anche sul mare: i diving si coordinano per evitare di affollare gli stessi siti nello stesso giorno: non tutti partono alla stessa ora, non tutti vanno sulla stessa parete. Così il fondale respira, i pesci restano tranquilli e le cernie non devono fare terapia di gruppo. In questo modo, la pressione umana sull’ecosistema è distribuita, e l’ambiente ringrazia. Rispettano, nella pratica più che nelle parole, le regole del parco: numero massimo di immersioni giornaliere, limiti di profondità, zone interdette, uso controllato dell’ancoraggio.
E quando poi c’è da parlare con l’Ente del Parco o con le amministrazioni locali, si presentano compatti, non come concorrenti in guerra, ma come una squadra: imprenditori subacquei che parlano con una voce sola, quella del mare e del business condiviso.
Ecco il contrasto col sogno italiano: quante volte vediamo associazioni, cooperative, consorzi o comitati che nascono con retorica granitica e poi si spappolano sotto interessi personali, gelosie, desiderio di distinguersi? Qui, a L’Estartit, noto che l’“ego” del centro di immersione fa un passo indietro, o almeno cerca di farlo, rispetto all’ecosistema che hanno davanti e il grande business che questo ha contribuito a nascere. Il mare, le grotte, le gorgonie o le cernie sono le vere dimensioni del prestigio, non chi ha il logo più cool o il sito web più appariscente. E questo messaggio arriva dritto al subacqueo che arriva qui con l’acquolina in bocca e torna a casa pienamente soddisfatto.
Questo spirito collaborativo rende il sistema più forte: un’immersione preservata è buona per tutti, un’esperienza autentica del cliente torna sotto forma di passaparola, il rispetto del fondale mantiene viva la bellezza che tutti vendono. E quel “noi italiani ce lo sogniamo” diventa, per un tratto di Costa Brava, una realtà pratica.
Il brevetto, l’assicurazione e il certificato medico
Ora vi racconto un piccolo episodio, divertente per voi che leggete, ma per me davvero sorprendente.
Sono arrivato da un’oretta a L’Estartit: ho depositato armi e bagagli (e quando dico armi intendo i miei umilissimi strumenti da videoripresa) in camera, e ho sistemato l’attrezzatura subacquea nei locali del diving center, tra spogliatoio, magazzino e area di risciacquo.
Vado al desk della reception per presentarmi, registrarmi e, soprattutto, per prenotare le mie immersioni. Sono carico a molla, con idee bellicose: voglio vedere tutto, ogni parete, ogni grotta, ogni cernia e mentre snocciolo un elenco di domande degno di un interrogatorio del tipo quando andiamo a vedere quella famosa grotta e quando invece andiamo a vedere le gorgonie bicolore, il buon Genís, che è l’immagine stessa della calma catalana, mi guarda, sorride e mi chiede con voce serafica: “Mi puoi mostrare il brevetto, l’assicurazione e il certificato medico di idoneità subacquea?”
Silenzio… Perdo immediatamente l’uso della parola mentre il mio cervello va in cortocircuito. Il brevetto, ok lo trovo nell’app della mia agenzia didattica. Ma l’assicurazione? Il certificato medico? Dove diavolo li recupero? Mi esce un mugugno tutto italiano: “E che diamine (non ho detto diamine, lo confesso)! Potevate dirmelo quando ho prenotato!”
Per fortuna, dopo qualche secondo di panico, il sangue torna a circolare anche nella parte razionale del cervello, e mi ricordo che dall’applicazione posso scaricare anche il resto. Panico rientrato, dignità quasi salva. Ristabilisco il clima amichevole e chiedo a Genís cosa sarebbe successo se non fossi riuscito a recuperare quei documenti.
Mi spiega che senza assicurazione ci si può arrangiare facilmente, oggi ogni compagnia ha un’area riservata online. Ma il certificato medico è un’altra storia: se non ce l’hai, devi firmare la classica autodichiarazione che si usa durante i corsi, quella dove dichiari di essere sano come un pesce anche se hai appena finito il pacchetto da venti di Marlboro rosse.
Ora, se uno fosse onesto fino in fondo, un fumatore over 45 dovrebbe allegare il certificato medico vero e lo stesso vale per chi tiene a bada colesterolo o pressione con le pillolette magiche. Ma diciamoci la verità: quanti lo fanno davvero?
E qui parte il mio mugugno genovese di ritorno: “Non sarebbe meglio essere onesti con noi stessi e farci, ogni anno, una bella visita medico sportiva agonistica? Una di quelle serie, con spirometria, prova da sforzo e medico che ti guarda negli occhi e ti dice se sei ancora da immersione o da poltrona?”
Chiacchierando poi con i miei nuovi compagni di immersione, scopro che la visita medica è obbligatoria non solo in Spagna, ma anche in Francia, dove la Federazione sportiva pretende assicurazione e certificato di idoneità per chiunque pratichi attività subacquee.
Punto. Nessuna scusa.
Qualcuno potrebbe dire che da noi sarebbe impossibile: troppa burocrazia, troppi costi, troppa fatica. E che i diving, già schiacciati dalle spese, non potrebbero reggere l’obbligo di chiedere anche assicurazione e certificato e sarebbero costretti ad aumentare ancora il prezzo delle immersioni. Forse è vero, ma poi guardo il listino che ho di fronte e penso: “Aspetta un attimo… alle Medas le immersioni costano meno che da noi.”
E allora il dubbio viene spontaneo: forse, quando le regole sono chiare e condivise, le cose funzionano meglio. Anche, anzi, soprattutto sott’acqua.

Grotte, cernie e gorgonie
Le Medas sono famose per le loro grotte. Qualcuno della Federazione Subacquea Catalana mi ha detto che questi isolotti, insieme alla costa, assomigliano a una groviera: pieni di tunnel, passaggi e camini per ogni gusto e livello di curiosità. E in effetti è così: le Medas non si esplorano soltanto, si attraversano anche, ma sempre con giudizio e rispettando i limiti imposti dai regolamenti, dagli standard dei brevetti e, soprattutto, dalla nostra esperienza e confidenza con l’ambiente.
La più nota, la più mitica di tutti, e forse addirittura la più iconica è la Cova de la Vaca, un sistema di cunicoli e corridoi che taglia il ventre stesso della Gran Meda.
L’ingresso è ampio, quasi maestoso, una bocca di roccia che si apre su un blu profondo, ma gentile.
Dal punto di uscita filtra una luce tenue, quasi un richiamo, e io entro piano, lasciando che la mia maschera si riempia di ombre. La luce esterna svanisce lentamente, e il mondo si fa ovattato, sento solo il mio respiro, regolare, meccanico, l’unico suono che rompe il silenzio sacro dell’acqua.
Le pareti si accendono dei riflessi dei miei fari: madrepore gialle, spugne colorate, minuscole creature che sembrano stelle di un cielo capovolto. Un numero impressionante di vacchette di mare è aggrappato, a testa in giù, alla roccia buia sfidando i principi basici delle leggi gravitazionali. Dalle aperture laterali filtrano lame di luce che attraversano l’acqua come fenditure di vetro, sono perfette, quasi troppo belle per essere naturali.
Più avanti, la roccia si apre in spaccature che paiono colonne di una cattedrale sommersa, è come nuotare nel sagrato di un tempio costruito dal mare stesso. Dagli anfratti, un gruppo enorme di corvine scatta verso l’uscita, rapide, argentate. Una cernia mi osserva da vicino, poi si ritrae lenta, abbagliata per un attimo dai miei fari, quasi offesa dalla mia intrusione.
Fuori, la corrente riprende forza e muove i grandi rami di gorgonie che tappezzano la parete, rosse e gialle, quasi ipnotiche. Mi chiamano, come cori di sirene e io mi lascio convincere: scendo più in profondità, dentro un bosco verticale di colori che vibrano al ritmo del mare.
Lì, tra la luce e il blu, nuotano le grandi cernie delle Medas, massicce, solenni, custodi di questo santuario sottomarino. Mi fermo un attimo, sospeso a mezz’acqua, e capisco perché chi viene qui una volta non se ne dimentica più: perché ogni immersione alla Cova de la Vaca è un atto di fede nel mare e nella sua infinita, silenziosa bellezza.
Les Ferranelles è un’altra storia, un nuovo capitolo, un piccolo scoglio la Gran Meda e Tasco Petit, un posto leggendario dove pare che l’intero Mediterraneo si sia dato appuntamento.
Con me ci sono i giornalisti che sono venuti a documentare il Campionato Mondiale di Fotografia Subacquea e che sono stati invitati dagli enti di promozione turistica della Costa Brava a vivere l’esperienza di vedere in cosa si può trasformare il Mar Mediterraneo quando l’uomo decide di proteggerlo e smette di sfruttarlo.
Siamo un gruppo eterogeneo, subacquei e subacquee che provengono da tutta Europa, tutti diversi, ma in quel momento uguali, con gli occhi puntati sul mare e il cuore che batte un po’ più forte. Il motore ruggisce piano e la barca scivola via, lenta verso gli isolotti che si avvicinano e spuntano dal blu come sentinelle di pietra.
Il briefing multilingue è rapido, il mare è perfetto, la visibilità infinita. “Tre, due, uno… via.” Il tuffo è un colpo di libertà: il rumore del mondo scompare, e resta solo il suono del respiro che si mescola alle bolle.
Sotto, il blu è vivo, intenso. La luce del sole pomeridiano penetra obliqua, disegnando strisce d’oro sulla roccia, ricoperta dall’immensa prateria di Posidonia. Scendiamo lentamente lungo la franata, e all’improvviso, come ombre che prendono forma, appaiono loro: lecernie giganti delle Medas. Mostri buoni, curiosi, antiche guardiane del mare. Ci osservano immobili, con i loro occhi azzurri e pallati, senza paura, come vecchie regine che concedono udienza ai propri sudditi. Sono enormi, eleganti, e ti fissano negli occhi con una calma che ti spiazza.
Attorno, la vita esplode, barracuda che sfrecciano come frecce lucenti, dentici che pattugliano il blu e poi il colpo di scena: un banco di ricciole in caccia che si lancia contro una nuvola di acciughe. Il mare si trasforma in una tempesta di argento, i pesci guizzano, la luce rimbalza, il blu si riempie di riflessi e caos: è come essere dentro un vortice di vita pura.

Io resto fermo, sospeso, a pochi metri dal fondo, e guardo la scena come un bambino davanti ai fuochi d’artificio. Mi basta respirare e sentire il cuore che batte più forte, mentre il mare fa il resto.
Poi, lentamente, tutto si calma. Le acciughe si disperdono, le ricciole scompaiono nel blu, e le cernie tornano ai loro rifugi tra le rocce, come se nulla fosse accaduto. Resto lì, solo, a mezz’acqua, circondato da luce e silenzio. È in momenti come questo che capisci perché torniamo giù ogni volta: non per sfidare il mare, ma per ricordarci che ne facciamo parte.
Il mio ultimo sogno, qui alle Medas, ha la forma di un ventaglio. Anzi, di mille ventagli che si aprono insieme, rossi e gialli, come se il mare avesse deciso di farsi artista e dipingere la sua foresta.
Le gorgonie bicolore sono questo: pura eleganza, un miracolo che non segue le mode, non passa mai di moda. Un evergreen del mare, una di quelle cose che, per quanto possa averle già viste mille volte, mi lasciano sempre senza fiato. Le ho incontrate in tanti posti: nello Jonio, in Sicilia, sulla Montagna di Scilla dove si arrampicano sulle secche profonde come rami d’oro. Ma qui, alle Medas, è diverso, iniziano già a venti metri di profondità e continuano giù, generose, accoglienti, quasi a dirti: “Resta quanto vuoi.” E puoi davvero farlo, perché la profondità lo consente, la corrente è perfetta, e il mare ti culla in un silenzio che sa di pace.
La Pota del Llop è il loro regno, una parete che scende dolce, avvolta da un flusso costante che fa danzare i rami e aprire i polipi come fiori al sole. Ci puoi restare minuti, ore intere, sospeso davanti a quel bosco colorato che ondeggia piano, vivo, respirante.
Ogni fascio di luce che penetra dall’alto cambia il disegno, accende nuove sfumature, e ti ipnotizza ancora di più, come un quadro impressionista.
Poi, come in un finale scritto apposta per te, la vedi, una ballerina spagnola che si muove sinuosa tra le gorgonie, in una danza lenta e perfetta. Fluttua leggera come un drappo di seta, la guardo volteggiare tra le gorgonie, quasi teatrale, e penso che qui bisognerebbe davvero pagare il biglietto.
E in quel momento capisci che puoi tornare a casa contento. Perché hai visto tutto ciò che sognavi, hai respirato il mare come volevi, e sai già che, prima o poi, qui ci tornerai.
Perché delle Medas non ci si stanca mai: ti entrano dentro e non ti lasciano più andare.
L’autore
Stefano Sibona è un subacqueo e viaggiatore con la passione per la scrittura. Racconta il mare attraverso il suo blog Underwater Tales, dove unisce esperienza diretta, fotografia e amore per la subacquea.
Segui le sue storie su underwatertales.net e sul suo profilo Instagram
Foto di copertina di Marco Daturi